Cari lettori,
Avrei una domanda.
Come mai una questione così importante come il cambiamento climatico e le sue conseguenze, non viene trattato a scuola.
E se viene trattato, non col giusto peso?
Non sarebbe utile un incontro, ogni tanto, con qualche esperto del settore?
A fine settembre gli studenti di tutto il mondo hanno dedicato una settimana a ragionare su cosa fare per contrastare il cambiamento climatico, grazie all’importantissimo impegmo dei gruppi Fridays for Future delle varie città. Greta Thunberg è riuscita a richiamare in piazza milioni di ragazzi in tutto il mondo, che già il 15 marzo 2019 (con un secondo sciopero, meno “universale” il 24 maggio) hanno gridato al mondo e ai governanti di ogni livello il loro timori per il futuro: “noi sappiamo che il cambiamento climatico è una realtà, e voi? Cosa state facendo?”
Se gli studenti sono il fulcro delle manifestazioni, mostrando non di rado una buona capacità organizzativa, la scuola dov’è? Come li aiuta a gestire un futuro non facile? Il 5 dicembre 2018 è stato firmato un protocollo d’intesa tra MIUR (con il ministro di allora Marco Bussetti) e ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (ministro Sergio Costa, riconfermato) per “elaborare un Piano nazionale per l’Educazione ambientale nelle scuole italiane di ogni ordine e grado per sensibilizzare bambini e ragazzi, fin da giovanissimi, su temi come la sostenibilità ambientale e la qualità dello sviluppo. In un’ottica di cittadinanza attiva”. Con l’intento, si legge nel documento MIUR, di rendere strutturali i percorsi di educazione ambientale nelle scuole. Attraverso percorsi di educazione ambientale per gli studenti, progetti e attività a supporto delle iniziative autonome delle scuole, programmi di formazione e aggiornamento per docenti e ATA, interventi per la qualificazione degli spazi educativi e degli edifici scolastici, nel rispetto della sostenibilità ambientale e di una migliore efficienza energetica.
L’elemento imprescindibile per l’efficacia di un’attività di educazione ambientale è FARE. Solo le parole, solo le pagine di un libro, solo qualche video o documentario visto in classe sulla LIM, solo l’incontro sporadico con l’esperto o il ricercatore che ti racconta il suo lavoro… non bastano. La scienza che studia il climate change oltre a fisica, chimica, biologia, botanica, geologia, zoologia… ormai raduna sotto lo stesso ombrello anche statistica, intelligenza artificiale, sociologia, economia, antropologia, giurisprudenza… I programmi ministeriali che continuano a proporre ai ragazzi percorsi rigidamente separati sono di fatto delle gabbie. Bastoni fra le ruote a chi vuole impostare attività a scuola davvero interdisciplinari e comfort-zone perfettamente legittime per chi è pigro e incapace di evolvere il proprio modo di insegnare rispetto alle necessità dell’oggi.
Sono un giornalista scientifico da 30 anni e da più di 20 organizzo, propongo e gestico in prima persona progetti didattici nelle scuole (le cosiddette attività STEM o hands-on tanto invocate dall’Unione Europea per una scuola moderna e al passo coi tempi). Purtroppo riscontro spesso difficoltà operativa: sulla carta tutti d’accordo, non di rado le attività di educazione ambientale e di didattica della scienza vengono poi ostacolate quando si arriva finalmente in classe: impossibile accendere un fornellino a gas in classe, maneggiare alcuni reagenti per toccare con mano la chimica, far salire i ragazzi su una scala a controllare (o cambiare) una lampadina o sul tetto terrazzato per studiarne l’esposizione solare in vista di un pannello fotovoltaico.
L’interpretazione alla lettera delle normative di sicurezza (e la mancanza di un laboratorio di scienze attrezzato e autorizzato) diventano il perfetto alibi per non-fare. Le regole vanno lette e interpretate cum grano salis e in certi casi vanno cambiate perché il fare con le proprie mani, il mettersi in gioco è lo spartiacque tra un’attività di educazione ambientale che funziona davvero e una che spruzza solo un po’ di disordinate informazioni. Non si impara ad andare in bicicletta o ad arrampicarsi su un albero senza mettere in conto di sbucciarsi le ginocchia. Le attività di educazione ambientale hanno bisogno di esperienzialità, di fare e sbagliare e tentare ancora.
Un paio di anni fa, in una scuola media, facendo un’attività su come illuminazione efficiente significasse automaticamente risparmio energetico e miglioramento della luce in classe di illuminazione avevo in mente di smontare un portalampade a soffitto e di installare a più riprese lampade diverse e di misurare l’effetto con un luxmetro e un wattmetro (tutto materiale ovviamente portato da me). Sono stato pesantemente redarguito da insegnante e personale ATA perché non avevo l’autorizzazione a smontare un portalampade e perchè non posso installare apparecchiature elettriche non autorizzate dal tecnico del Comune (una lampadina LED!?!). In un altro caso un lavoro lungo un anno sulla raccolta differenziata classe per classe (fatta dai ragazzi!) si è affossato perché il personale non avrebbe avuto in mansionario il compito di portare i sacchi con lattine, plastica e carta separati al primo cassonetto utile (tre isolati fuori scuola) e il dirigente non se la sentiva di insistere per “non rovinare i rapporti con i sindacati”.
In libreria e in biblioteca esistono ottimi libri densi di azioni concrete in difesa dell’ambiente e sul web si possono trovare indicazioni pratiche molto facili da portare in classe… dunque occorre invitare, esortare in tutti i modi dirigenti scolastici, insegnanti e bidelli a utilizzare il tempo prezioso che passano con i ragazzi a costruire con loro il loro futuro.
Andrea